Foto tratta dal sito: http://www.coac.net
Gianluigi Pirrera

Una breve presentazione, lei chi è e di cosa si occupa?

Mi chiamo Gianluigi Pirrera e sono un ingegnere che nel tempo ha modificato la sua impostazione professionale occupandosi sempre più di ambiente e sempre di più in ambito naturalistico e di conservazione del paesaggio, quindi mi occupo prettamente di ingegneria naturalistica e restauro ambientale con un’attenzione particolare al paesaggio e agli ecosistemi, sono vice presidente dell’AIPIN (Associazione Italiana Per l’Ingegneria Naturalistica) che raggruppa gli interessi di tutti i professionisti, non solo ingegneri ma inclusi gli ingegneri, che si occupano di ambiente e vogliono occuparsi di ambiente con un taglio prettamente naturalistico.

In cosa consiste l’ingegneria naturalistica?

L’ingegneria naturalistica più che una tecnica  è un modus operandi per il quale si cerca di risolvere problemi  legati all’ambiente non solo tramite vere e proprie tecniche di recupero ma considerando degli aspetti tecnici che siano contestualmente naturalistici e di conservazione della natura e della biodiversità. L’ingegneria naturalistica nasce originariamente occupandosi quasi esclusivamente di tematiche legate alla difesa del suolo, alla sua conservazione e alla lotta contro l’erosione, dunque tecniche utilizzate principalmente in montagna o a supporto dell’agricoltura e per evitare che l’erosione dovuta alle coltivazioni impedisse una giusta conservazione del suolo.  Nel tempo queste tecniche si sono sempre più spinte verso il sud con la necessità di declinare la materia con le nostre piante perché la connessione con il territorio è diventata fondamentale. Quindi per concludere con una vera e propria definizione di ingegneria naturalistica io direi: l’utilizzo di materiale quasi esclusivamente organico o comunque naturale (quindi legname, pietrame ecc.) congiuntamente e contemporaneamente ad una parte viva, ovvero materiale vegetale (dunque piante o parti di piante o semi) per fare in modo che i problemi tecnici vengano risolti non tanto dal substrato originario come legname o pietrame bensì dalla parte vegetale. Dunque, se viene richiesto un consolidamento ci si affida alle radici, se viene chiesta un purificazione dell’aria ci si affida a tutto ciò che la pianta attraverso la propria respirazione riesce a fare, quindi l’utilizzo di piante, ed esclusivamente piante del nostro territorio, per risolvere problemi tecnici con un occhio sempre rivolto alla naturalità dei processi.

Per esempio in Sicilia che tipo di interventi sono stati fatti?

Abbiamo diversi esempi sul territorio siciliano, i primi interventi di ingegneria naturalista si sono basati prevalentemente su obbiettivi di consolidamento e dunque opere che fossero alternative ai muri in cemento armato per consolidare le pareti fatte con strutture di legname pietrame e piante. Oppure elementi per la stabilizzazione del terreno un po’ simili a quelle che sono le viminate che esistono da sempre perché di fatto ripercorriamo tecniche antiche giustificandole sempre di più da un punto di vista scientifico e tecnico perché possano applicarsi non come operazioni della mera esperienza e delle tradizioni che si tramandano di padre in figlio ma come un utilizzo sistematico per il territorio. Quindi da questi primi esempi che facevano riferimento all’obbiettivo originale ovvero la difesa del suolo si è passati a progetti con obbiettivi più ampi che colpiscono pure altri ambiti quindi sicuramente passando dal suolo all’acqua nonché alla depurazione realizzata tramite piante, non realizzata con vasche preordinate esattamente come sono le vasche degli impianti di fitodepurazione ma attuando la depurazione direttamente nel corso d’acqua. Negli ultimi anni mi sto largamente occupando di desertificazione quindi non più la necessità di consolidare ma quella di conservare il suolo perché non si perda e soprattutto laddove non c’è più suolo, perché il suolo ormai è quasi del tutto eroso, dunque c’è solo la coltre di base, argille ecc., ovvero nulla che abbia un vero valore per l’attecchimento delle piante, aiutandole per fare in modo che si ricostituisca una base che possiamo chiamare “protosuolo” affinchè possano attecchire le piante pioniere e dunque ripartire dalla base. Perché noi non possiamo pensare di andare subito ad obbiettivi vegetazionali importanti come foreste, per esempio la Sicilia prima era un querceto ma è un errore pensare di poter piantare querce, dobbiamo ripartire innanzitutto, prima delle piante, dall’avere una base valida al livello di suolo, ed è questo il modo migliore di fare prevenzione al rischio desertificazione sul territorio siciliano. Ricordiamo che la Sicilia è il territorio con maggior rischio desertificazione dell’intera Europa,  è chiaro dunque che l’ingegneria naturalistica debba occuparsi di questo, non ha senso occuparsi di difesa idrogeologica in Sicilia se non ci si occupa di desertificazione, d’altronde le cose sono collegate, il rischio idrogeologico in Sicilia è dato dal fatto che non abbiamo più suolo, dunque non vi è più spazio per le piante e così neanche per questo dialogo fondamentale tra il terreno che va preservato e le piante che sono il mezzo per preservarlo.

Quindi rispetto ai tentativi di processi di riforestazione in atto sul territorio si dovrebbe fare un passo indietro?

SI, ma abbiamo ampiamente visto come siano stati un errore principalmente per le specie scelte, perché sono state utilizzate delle specie non adatte, i pini che già dai romani vennero impiantati in Sicilia, più che altro per scopi paesaggistici, ma che acidificano il terreno e rendono praticamente impossibile l’attecchimento di quasi tutte le specie autoctone, ma soprattutto Eucalipti ed Acacia, piante scelte per la riforestazione ed utilizzate erroneamente per decenni. Ma in ogni caso è sbagliato pensare di mettere subito alberi perché prima degli alberi c’è il suolo che come abbiamo detto va ricostituito, ma poi ci sono le erbacee che svolgono la funzione di trattenere inizialmente il suolo e permettono l’attecchimento delle altre piante, le principali famiglie di erbacee presenti sul territorio sono due: le graminacee e le leguminose. Queste ultime in particolare sono quelle che fissano l’azoto nel terreno rendendo il suolo propulsivo per altre piante. Quando avremo un suolo capace di sostenere la presenza di erbacee si può considerare di impiantare le arbustive, o magari qualche arbustiva (poche) può essere messa in contemporanea alle erbacee. Non può esistere in Sicilia un intervento che non guardi alle specie erbacee. Dalle arbustive si può finalmente passare alle arboree. Questo secondo me è l’errore principale che per decenni si è commesso in Sicilia. Vi sono esempi forti in Europa quali la Francia o la Scozia in cui si è intervenuti attuando direttamente  una riforestazione arborea, ma è stato portato avanti in contemporanea un processo di inserimento di specie erbacee ed arbustive. Quello degli alberi può dunque essere un obbiettivo, ma deve essere un obbiettivo a lungo termine.

Cosa si intende per interventi di restauro ambientale e restauro naturalistico?

Il restauro ambientale,  che possiamo semplicemente definire con il termine di “rinaturalizzazione”,  ha come obbiettivo un processo decisamente più legato alla conservazione, dunque l’obbiettivo non è più prioritariamente quello tecnico (consolidazione, adattamento, stabilizzazione ecc.) ma quello di riportare naturalità in un territorio. Questo può avvenire per esempio nelle aree protette, un’ operazione principale e prioritaria di rinaturalizzazione dell’ambiente in Sicilia dovrebbe a parer mio partire dall’espianto sistematico di tutte le specie alloctone e invasive, perché se c’è una copertura generale di alloctone invasive è naturale che non possano attecchire altre piante dunque la vegetazione si espande con specie che non sono compatibili con l’ambiente specifico non permettendo l’espandersi di altre specie. Il restauro archeo naturalistico è un obbiettivo diciamo ancor più “nobile”,  perché la rinaturalizzazione si deve fare principalmente per le aree protette, nei parchi archeologici invece non basta il concetto della naturalità, non ci possiamo accontentare di reinserire specie che siano autoctone,  dobbiamo preoccuparci anche di una compatibilità “storica”, che guardi al passato,  perché se si opera in un parco archeologico, prendiamo l’esempio di Cava d’Ispica, bisogna essere coerenti con le specie che c’erano in quell’epoca. Se siamo al parco archeologico di Selinunte, vedremo che nel corso del Selinus, il fiume che ha dato il nome all’area, vi sono degli interventi di forestazione spondale voluti dall’uomo e fatti appositamente, con Acacia Horrida, una specie che non c’entra nulla con il territorio ed è anche pericolosa. Noi abbiamo aree archeologiche piene di eucalipti, abbiamo aree archeologiche piene di pini, quindi il restauro archeo naturalistico come primo obbiettivo deve avere quello di togliere tutto ciò che è incompatibile dal punto di vista vegetazionale con le piante e rimettere le piante che sono storicamente proprie del territorio. Cose di questo genere altrove in Italia sono state fatte, seppur in maniere non tanto diffusa, come Pompei che pur essendo un ambito urbano presenta giardini e colture molto bene pensate e coerenti con l’ambiente e la sua storia, e in alcuni casi questo avviene pure per giardini urbani di Roma,  nonché a Napoli. In Sicilia questo è quasi del tutto assente, la politica dell’archeologia siciliana guarda ancora troppo al “reperto” all’elemento architettonico-manufatturiero e non al contesto paesaggistico.  In Sicilia abbiamo fatto un intervento con il sostegno della sovrintendenza di Ragusa presso la Cava d’Ispica o anche a Pietrapersia tramite un intervento di prevenzione del rischio desertificazione ci siamo affiancati ad un archeologo e sono emersi anche nuovi reperti di grande interesse. Chi si occupa di restauro archeo naturalistico, così come si chi occupa della valutazione dell’impatto ambientale, deve prendere in considerazione la possibilità della cosìdetta “opzione zero”, ovvero non intervenire se non tramite l’espiantazione delle specie alloctone.

Secondo lei l’inserimento in passato di specie alloctone è dovuto a pura e semplice incompetenza?

Non è solo incompetenza, c’erano delle politiche comunitarie che si basavano sul concetto secondo cui  bisogna mettere delle piante a facile attecchimento e rapida crescita e da li la scelta di mettere eucalipti et similari, senza curarsi della coerenza biologica con il luogo. Dunque è certamente un errore storico,  e anche un errore tecnico dovuto al dare priorità all’attecchimento e alla rapida crescita. Dunque, prendendo un esempio siciliano come Selinunte, gli errori sono derivati dall’affidarsi totalmente ad una progettazione architettonica paesaggistica che doveva essere prioritaria rispetto al valore storico. Quindi i lavori sono stati messi in mano ad architetti che hanno realizzato opere che poi con il tempo si è visto non andare bene. Ma l’esempio è allargabile all’architettura urbana, prendiamo l’esempio dello Zen,  che è un’opera di grande architettura come pianificazione ed affidata a grandi architetti. Ma la priorità era quella e non il valore e la coerenza sociale dell’opera. Altri grandi errori che mi vengono in mente a Palermo, uno per tutti il palazzo della Zisa, dove il rispetto storico non vi è stato per quanto riguarda l’inserimento del verde. Per fortuna viviamo in un epoca in cui la nostra consapevolezza storica aumenta, e si sono sviluppate dinamiche anche alquanto evolute come ad esempio un approccio “bottom up”  che io credo essere molto più maturo rispetto al legislatore che è attento ad approcci più diretti e meno dispendiosi, perché purtroppo le tecniche di cui stiamo parlando, quando l’economia va male, diventano un “lusso”.

Cosa intendiamo per bio depurazione?

E’ più corretto dire depurazione naturale che contiene al suo interno la fito depurazione. La fitodepurazione utilizza delle piante che si comportano esattamente come un impianto tradizionale di depurazione, in poche parole l’obbiettivo è che vi sia tramite l’ossigeno una metabolizzazione della sostanza organica contenuta nel liquame. Dunque è la pianta che capta l’ossigeno dall’esterno e lo trasferisce al suolo permettendo i processi fitodepurativi che vengono attuati dalle radici. Ovviamente nel caso della fitodepurazione ogni tanto bisogna scontrarsi con il problema dello smaltimento delle piante, ovvero della bio massa.  Ovviamente in queste cose l’approccio naturalistico diventa importante e in particolar modo, cosa che spesso non si fa nella fitodepurazione,  se utilizziamo piante del territorio. Quelle solitamente più diffuse sono le canne, arundo donax , ma non necessariamente solo queste, noi utilizziamo spesso per esempio i giunchi o i papiri. Dunque le piante vengono scelte perché vengono fuori dal germoplasma del territorio e quindi c’è una compatibilità di continuità con il territorio circostante. La depurazione naturale però comprende anche altre tecniche oltre la fitodepurazione, che utilizza vasche geometrizzate nelle quali vi è una concentrazione di piante tutte uguali, dello stesso sesso e della stessa altezza con flussi idraulici verticali o orizzontali. Esistono anche sistemi più wild, in cui coesistono più specie e dunque cambia anche l’efficacia depurativa, e cambia anche in funzione dell’obbiettivo, se devo fare la depurazione di un insediamento singolo abitativo o sono in un area protetta cercherò delle soluzioni più naturalistiche se devo fare un impianto di fitodepurazione per un agglomerato urbano è chiaro che dovrò concentrare le superfici. Ma la depurazione naturale può avvenire anche direttamente nel corso d’acqua, anche i corsi d’acqua come il suolo hanno perso le loro vitalità, non c’è più acqua e noi dobbiamo riportarla, come ad esempio con una serie di piccoli salti, per fare in modo che la fauna dal basso vada verso l’alto, quindi creando delle piccole stagnazioni e ricreando una vita acquatica permettendo le  condizioni per l’attecchimento delle idrofite, che a loro volta permettono una depurazione naturale.

Chi in Italia si occupa di recupero e bonifica di ex aree industriali o similari?

In realtà è lo stato stesso che si dovrebbe occupare di queste cose. Le grandi aree industriali, e in Sicilia ne abbiamo tante, sono aree di interesse nazionale dal punto di vista della bonifica, e c’è una legge specifica su queste aree. In Sicilia le aree di interesse nazionale sono Milazzo, Gela, Siracusa e Biancavilla. Le prime tre sono grandi aree industriali l’ultima è un area che presenta una forte dose di inquinamento naturale di origine geologica.  Dunque questa legge guarda alla salute pubblica dei cittadini e ci sono dei fondi specifici stanziati per queste cose che in Sicilia sono quasi praticamente inutilizzati. La pubblica amministrazione dovrebbe occuparsi della bonifica utilizzando questi fondi  ed assolvere ad un obbligo, perché il ripristino del territorio è obbligatorio e necessario, cioè quando un sito viene abbandonato deve essere riportato più o meno alla sua naturalità, ma sono anche le stesse industrie quando vanno via che hanno l’obbligo di intervenire mentre invece questa cosa è spesso posta a carico volontario di nuove attività che si devono andare ad insediare in quel determinato posto.  In queste grandi aree siciliane il problema più grande è quello degli idrocarburi, bisogna urgentemente pulire tutti i suoli dagli idrocarburi, e questo prevede operazioni decisamente costose,  che si possono fare anche attraverso le piante, con tempi notevolissimi, vi sono infatti una serie di piante che hanno capacità non solo di depurazione ma di assorbire metalli pesanti e lavorano sino al limite del loro stress. Esistono anche tecniche ancor più costose come il soil washing che funziona come una lavatrice, prende il suolo e lo lava ribaltandolo ma facendo ciò si ottiene ovviamente un terreno pulito ma sterile e si ottiene lo scarto dei materiali inquinanti concentrati. Nel caso delle piante invece il rifiuto sarebbe la bio massa ma la fito remedation può essere applicata con metodi naturalistici, per esempio in Danimarca è stato fatto in un  parco urbano  derivato da un area di discarica di batterie in disuso, utilizzando salici e pioppi, piante che hanno altissime capacità di bio remedation.  Diversi anni fa abbiamo fatto  dei progetti in Germania e abbiamo visto un’area in cui c’erano delle contaminazioni gravissime, lì per fortuna avevano tantissima acqua e pompavano acqua dalla falda, allagavano l’area rendendole aree di lagunaggio e attraverso le bio remedetion in umido, con un lagunaggio molto spinto e con l’aiuto di piante, sono arrivati non solo a depurare quell’acqua ma hanno creato una specie di parco naturale acquatico. Questi sono i cosiddetti criteri di ecologia industriale dove la naturalità è spinta a tal punto e diventa al servizio dell’industria. L’attuazione di queste tre tecniche da luogo all’ecologia industriale e questi criteri applicati all’industria possono risolvere un sacco di problemi, ma c’è bisogno di volontà e di progettualità.  Il concetto chiave, molto evoluto, e forse un po’ difficile da accettare è che la naturalità inserita nell’industria non è un aggressione a quest’ultima ma bensì un aiuto.

Perché non esiste un ente pubblico che si curi di queste cose?

Perché manca la conoscenza e la consapevolezza e dunque la predisposizione. E  soprattutto sono necessari professionisti in fase di progettazione, scelta delle piante, attuazione. Mancano gli elementi di consapevolezza ecologica. Ricordiamo che l’Italia a causa della Sicilia è in procedura di infrazione per la depurazione. Spesso come per i piani urbanistici il problema principale è il dimensionamento, come le città che vengono pianificate come se dovessero avere uno sviluppo demografico tale che necessitino di mega infrastrutture. In poche parole è la taratura degli interventi che è erronea dal punto di visto della coerenza con il territorio. Purtroppo la programmazione regionale è diffidente nei confronti della fitodepurazione perché i pochi impianti già fatti funzionano male, e così viene penalizzato il territorio e la comunità e non chi ha commesso l’errore.  Quello che manca in Sicilia è il senso di appartenenza al territorio e la conseguente fisiologica priorità nel salvaguardarlo. Ognuno tiene benissimo casa propria e se ne frega del resto. Bisogna ripartire dal concetto di necessità sociale del verde, e a quel punto si potranno veramente fare interventi importanti. Purtroppo ancora non esistono programmi di formazioni specifici sulla bio ingegneria. L’unico corso di laurea che c’era a Palermo è stato chiuso, come il corso di “Ecologia del paesaggio”.

In cosa consiste l’idrosemina naturalistica?

L’idrosemina naturalistica è un concetto molto evoluto che purtroppo si applica poco in Sicilia, consiste in un uso di aspersione ad acqua di una miscela di semi, di collanti e di concimi  in maniera tale che si utilizzi subito una coltre nel terreno in erosione e i semi non scivolino subito via, dunque c’è una protezione del seme e una facilitazione per l’attecchimento e un aumento della germinabilità. Ovviamente la conditio sine qua non è l’utilizzo di semi locali e possibilmente raccolti sul posto, e prendere anche i semi delle specie che ci sono intorno, perché anche ammesso che le specie siano quelle adeguate, se vengono generate altrove si crea un problema di contaminazione genetica, un esempio classico è la gramigna, facilissima e presente ovunque, ma spesso viene utilizzata una specie che si utilizza nei campi da golf principalmente nelle Canarie… sempre gramigna, ma non la nostra. All’idrosemina aggiungerei il concetto di wild flowering, ovvero la creazione di prati fioriti naturali che presenta una ciclicità di fioriture e colori quindi una bellezza che si declina con le stagioni ma che è sempre presente. Quindi praticamente come naturalmente dovrebbe essere. Noi non siamo in Inghilterra dove il prato di gramigna è presente naturalmente. La nostra risposta è il wild flowering, anche se purtroppo spesso l’architettura del paesaggio preferisce il pratino all’inglese, e questa non è una scelta sostenibile, perché il prato all’inglese comporta dei costi di rasatura, comporta un’irrigazione eccessiva rispetto al territorio e non permette l’attecchimento delle spontanee autoctone.

E’ possibile intervenire relativamente alla grande tragedia dei boschi bruciati nel periodo estivo?

Si certo, noi abbiamo diverse piante autoctone che sono classificate tra le pirofite dunque piante che sopravvivono al fuoco, la riserva naturale dello Zingaro rinasce proprio per questo. L’impiantazione di queste specie potrebbe essere una risposta, come ad esempio la palma nana. E’ così che va fatta la lotta agli incendi, se noi pensiamo di riforestare con pini i luoghi distrutti da incendi è una grande errore, perché se vi fosse un altro incendio brucerebbe di nuovo tutto.

Vuole lasciare un messaggio finale ai nostri lettori?

Per salutarvi vi lascio una frase che a me piace tanto, pronunciata da un grandissimo paesaggista americano durante una sua lectio magistralis a Bari, in questa conferenza Richard T.T. Forman  dice ”Choose a place at any scale make it better for us and nature” ovvero  “Scegliti un posto, a qualsiasi scala e rendilo migliore per te e per la natura” e aggiungo io, conseguentemente, per le generazioni future. Questo racchiude in sè un concetto di bellezza e anche di sostenibilità che può essere la chiave reale per un cambiamento.

intervista a cura di Ariele Pitruzzella